Giorno 9. Arrivati a Lao Cai il mattino presto dopo una notte in treno passata con una tranquilla coppia texana in una spaziosa cuccetta a 4 posti, siamo presi in carico dal tizio della nostra agenzia di viaggi locale per essere trasferiti a Sapa. Lao Cai è una normale città vietnamita, con la piazza della stazione che sembra Times Square, palazzine a quattro piani tappezzate di insegne al neon, ed una folla confusa di traffichini pronti a portare chiunque a Sapa (la destinazione più comune). Sapa invece, a circa 30 km, è una cittá di montagna vietnamita. Qui all’arrivo vieni assalito da donne vestite di blu scuro, basse e dalla pelle bruciata dal sole, con a spalle delle gerle (qualcuna porta invece un bambino piccolo legato alle spalle). Ti circondano con fare amichevole, e sanno esattamente quando tirar fuori il contenuto delle gerle: borse, borsette, portafogli, cinture, orecchini, portachiavi, tutti decorati con i motivi tipici loro. Per ora le evitiamo e siamo accolti ad un ostello dove si può fare colazione, doccia, e cambio abiti. Sta spiovendo, ed il clima è molto più fresco che ad Hanoi. Verso le nove partiamo, due gruppi che poi si divideranno con il nostro che comprende, oltre a noi, altre sei persone: due catalani e quattro francesi. La guida è una signora indigena, anche lei vestita di blu scuro alla maniera dei black Hmong, scopriremo che si tratta di una ragazza di 26 anni, che si porta appresso il suo figlioletto di 6 mesi aiutata dalle amiche e poi dal marito, che se lo viene a prendere il pomeriggio in moto. Camminiamo in un paesaggio stupendo, circondati da terrazzamenti coltivati a risaie a perdita d’occhio. Il verde brillante di tanto in tanto vira al giallo, o diventa scuro guardando le cime delle montagne, avvolte dalla nebbia. Laddove i pendii sono più ripidi viene piantato il mais, che adesso è già secco e viene raccolto. Il riso è florido, e anch’esso tra poco sarà pronto per la mietitura. Motore dell’agricoltura è il bufalo acquatico, vero carro armato della risaia, che va sorvegliato a curatamente per evitare che si mangi le piante di riso.
Passiamo piccoli agglomerati di case dove sono in funzione semplici macine ad acqua, ed i bambini giocano seminudi per strada, i polli scorrazzano liberi e dei maialini neri grufolano nei loro recinti. Il terreno è fangoso a causa della pioggia ma abbastanza compatto, bisogna solo stare attenti a non scivolare. Ogni piccolo villaggio ha la sua scuola, le famiglie sono ancora molto numerose anche se con il crescere dell’istruzione il numero di figli anche qui comincia a calare. I bambini sono in classe per una specie di doposcuola. A pranzo ed al termine della camminata (oggi circa 12 km di saliscendi lungo una valle) le donne che ci hanno seguito lungo il percorso parlando con noi ed aiutandoci nei punti più impervi si attivano e cominciano a tirare fuori la loro mercanzia per vendere. Sono piuttosto insistenti ed è abbastanza fastidioso, soprattutto poi quando vengono mandate avanti delle bambine che continuano a ripetere come un mantra “Buy from me please”. Per principio, per quanto facciano pena, non compreremo mai da una di loro. Chiedo se non vogliano fare una partita a carte. Mi ispondono che alle donne non piace giocare a carte, nel tempo libero ricamano. Così poi possono venderre quel che hanno fatto. Ed il lavoro non finisce mai.
Passeremo la notte in una specie di agriturismo/b&b locale, un homestay dove cioè il padrone di casa, che ha fatto corsi specifici ed è certificato, ti fa dormire a casa sua (ha allestito camerate con all’incirca 16 posti letto) e ti offre la cena.
Prima di cenare la nostra guida Sen ci invita a casa sua, facendoci però portare un lungo palo di legno da usare forse per irrobustire il soffitto. La casa è costituita da tre grosse baracche di pegno con il tetto di eternit dove abitano tre famiglie; lei una volta sposata si è spostata nella casa del maito, un ragazzino tre anni più giovane di lei che al contrario suo dimostra esattamente la sua età. Hanno un recinto con i bufali, ed in casa ci vengono incontro dei bambini. L’unico gioco è una lattina di bibita. La casa è spartanissima, praticamente non c’è un mobile salvo un tavolo dove gli uomini stanno mangiando e bevendo vino di riso, un letto e delle panchine. Dopo aver brindato con gli uomini Sen ci fa accomodare in salotto, una stanza vuota con il pavimento in terra battuta, un televisore (rotto) ed un vecchio stereo da un lato e delle panche di legno dall’altro, Ho Chi Minh e San Francesco appesi al muro ed un’unica lampadina che illumina a stento la stanza scura. Su delle traverse, pesanti tessuti di canapa tinti di indaco stanno lentamente asciugando. Ci farà visitare anche la cucina, con una cuccuma sulla brace ed un enorme wok con del cibo indefinito dentro.
Di ritorno all’homestay, la cena è pronta, ed è davvero una lauta cena, ottima ed abbondante: involtini vietnamiti, pollo con peperoni, tofu fritto, cavoli saltati, pollo con funghi, ecc. Chiude il pasto un bel piatto di mele, frutto esotico in Vietnam che viene coltivato solo nelle montagne. Poco dopo di mette a piovere. Letto e cuscini, protetti da rete antimoscerini e tende pesanti per avere un po’ di privacy, sono un po’ umidicci e c’è un certo odore di muffa. Nel nostro stanzone, il padrone di casa guarda la tv mentre l’acqua piovana scroscia abbondante. Fuori non c’è una luce. È stato come fare un viaggio indietro nel tempo di diverse decine di anni. Qui non c’è nulla, tantomeno futuro. Però i bambini giocano felici, e di sicuro chi vive in queste baracche vive la sua vita senza aver idea di cosa sia un forno a microonde o un fornello ad induzione elettromagnetica.