ADA è, fra le tante cose, il nome di un linguaggio di programmazione. Lo conosco soltanto di nome, che a sua volta ricordo principalmente per un aneddoto, che ora vi vado a raccontare. Questo linguaggio si considera come un derivativo del più famoso PASCAL, che negli anni ’90 si studiava come introduzione all’informatica (un’epoca in cui insegnare ad usare il computer voleva dire insegnare a programmare). Con creatività tipicamente informatica, gli era stato dato il nome di una donna, Ada Lovelace, che era stata assistente di Charles Babbage, autore della “macchina differenziale” e soprattutto della “macchina analitica”, il primo computer della storia, ideato nel 1837, decisamente parecchi anni prima che Turing “inventasse” questo termine. (1)
Le macchine di Babbage erano a loro volta sofisticate evoluzioni della “macchina calcolatrice” che il grande matematico, fisico e filosofo Blaise Pascal descrisse, e poi costruì, verso la metà del XVII secolo.
Corrispondenza perfetta quindi: per un linguaggio erede del PASCAL niente di più adatto del nome di un’erede del lavoro del vero Pascal. Per molti anni questa rimase niente di più che una nozione, appunto il classico aneddoto, che per me era tutto quel che sapevo di ADA. Il PASCAL non era certo il primo linguaggio di programmazione strutturato inventato dall’uomo (a sua volta derivava da un linguaggio chiamato ALGOL, sempre ideato dal suo creatore, Niklaus Wirth), ma si diceva che questa Ada Lovelace fosse stata la prima programmatrice della storia. Me la immaginavo, nel buio di una fabbrica ottocentesca, come una specie di operaia di una macchina gigantesca, una specie di enorme telaio con rulli metallici e timpani, dischi rotanti e schede perforate. Pallida, i capelli raccolti in uno chignon, le mani esili su corde e tasti, come a suonare un’arpa.
Quando poi sono andato a cercare chi veramente fosse questo personaggio, la fantasia ha dovuto fare i conti con la realtà, e la mia immagine di Ada al computer ha dovuto cambiare un po’ (ma forse neanche troppo) per adattarsi alla storia.
La prima sorpresa è che Ada era una figlia illustre: suo padre era nientemeno che Lord George Byron, poeta romantico inglese, che visse una vita breve, pienissima e tempestosa; lei era anzi l’unica sua figlia legittima (ne aveva altre due o tre), avuta nel 1815 con la moglie Anne Isabella, che egli lasciò appena un anno dopo per andare in giro per il mondo, fino a trovare la morte nel 1824 vicino a Patrasso, in Grecia, dove si era entusiasticamente arruolato nelle file degli indipendentisti locali, in lotta contro l’Impero Ottomano. Ada aveva appena nove anni, e la figura del padre, considerato dalla madre malato di una pazzia contagiosa (tant’è che le proibì categoricamente di frequentare chiunque fosse stato suo amico), le mancò per tutta la vita.
Era di salute cagionevole. Soffriva fin dall’infanzia di cefalea e problemi visivi, e col morbillo se la vide talmente male da rimaner paralizzata un anno. Fu educata nella matematica e nelle scienze per volere della madre, preoccupata che potesse invece avvicinarsi alla letteratura e alla poesia come quel disgraziato di suo padre; cosa questa che temeva potesse scatenare quella pazzia che, ne era sicura, il bel George le aveva trasmesso per via ereditaria. Fu una bambina prodigio; suoi tutori furono l’eclettica Mary Somerville ed il matematico Augustus De Morgan, altro nome familiare agli informatici, per via delle sue leggi (2) sull’algebra booleana. Questi vedeva in lei bravura non comune e soprattutto un’originalità che avrebbe potuto renderla un matematico eccellente. La nostra Ada teenager si dedicava anche alla musica e, udite, udite… Suonava proprio l’arpa!
A 18 anni incontrò per la prima volta ad un ricevimento Charles Babbage, il quale aveva già realizzato la sua “macchina differenziale” ed era in quel periodo al lavoro su un nuovo, strabiliante progetto, quello della “macchina analitica”, cioè una macchina capace di svolgere in maniera automatica calcoli generici: era la prima volta che si concepiva una macchina general purpose, fatta cioè non per risolvere dei problemi specifici ma che potesse essere programmata di volta per eseguire ragionamenti differenti.
Era un mostro meccanico di 30 metri per 10, alimentata da un motore a vapore, che poteva processare programmi scritti su schede perforate (già in uso nei telai meccanici dell’epoca, e che sarebbero rimasti il principale sistema di input/output nell’informatica fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso); il suo cervello era the mill, il mulino, un’unità aritmetica in grado di eseguire le quattro operazioni aritmetiche fondamentali, e la sua memoria poteva immagazzinare fino a 1000 numeri di 40 cifre. Creatura squisitamente e totalmente meccanica – nella “memoria” ogni cifra era rappresentata da una ruota dentata – non sfigurerebbe certo in un romanzo steampunk. Peccato che, a causa di difficoltà tecniche e costi di realizzazione previsti esorbitanti, non fu mai costruita.
Ada dunque frequentava la Corte d’Inghilterra, dove si intratteneva in feste e ricevimenti (aveva la fama di essere un’ottima ballerina) e dove pure venne pericolosamente a contatto con persone della lista nera di sua madre, cioè con amici di papà come John Hobhouse. Nel 1835, a vent’anni, sposò un tal Barone William King diventando quindi la Baronessa King, andando a risiedere in una grande villa di campagna ad Ockham nel Surrey. Più tardi il marito guadagnerà pure il titolo di Earl of Lovelace, e quindi Ada diventerà nota come Contessa di Lovelace. Avranno tre figli, e pochissima fantasia (o possibilità di manovra) nei nomi: il primo lo chiameranno Byron (come il nonno), la seconda Anne Isabella (come la nonna), il terzo Ralph Gordon (Gordon era il secondo nome di Lord Byron).
Dopo la maternità, a venticinque anni, Ada si rilassa: è coinvolta in flirt, pettegolezzi e ovviamente scandali (è l’epoca vittoriana). Non smette mai però di interessarsi di scienza. Nel 1842-43, le viene commissionato il lavoro di tradurre la trascrizione francese di una presentazione della Macchina Analitica fatta da Charles Babbage all’Università di Torino qualche anno prima. Ada non si accontenta della mera traduzione, ma la correda di tutta una serie di note in cui approfondisce i temi trattati, tra le quali c’è pure un esempio: un programma – ed è il primo della Storia – per la macchina di Babbage, attraverso la quale è possibile istruirla per calcolare i “Numeri di Bernoulli”. Qualcuno dice in realtà che l’autore del programma fosse Babbage, che l’aveva poi passato ad Ada, la quale però rivedendolo aveva scovato (per stessa ammissione di Babbage) un errore. Quindi, se anche non fosse stata la prima programmatrice della storia, le spetterebbe il titolo di prima debugger – e per giunta su una macchina virtuale, scusate davvero se è poco.
Ada guarda talmente lontano da scrivere nelle sue note che il campo di applicazione della macchina analitica, cioè il computer, non era necessariamente limitato ai numeri, ma che avrebbe potuto, con i necessari aggiustamenti nei meccanismi e nella notazione, operare su qualsiasi altro dominio che potesse essere descritto con regole matematiche, come ad esempio la musica. La macchina analitica avrebbe quindi potuto produrre composizioni musicali di ogni grado di complessità ed estensione. Rimane però convinta che sarà sempre e soltanto uno strumento nelle mani dell’uomo, privo di ogni tipo di potenziale creativo; la sua intelligenza è data dal software, e quindi non è in grado di fare nulla di più di quel che l’uomo è in grado di fare – e di formalizzare in un algoritmo. Mai avrebbe potuto scoprire qualcosa di nuovo o imprevisto.
Oltre a collaborare con Babbage, sogna di elaborare ad un modello matematico del sistema nervoso, per poter spiegare in maniera analitica come si originano pensieri e sentimenti. Compito gigantesco e decisamente ambizioso, ma Ada ci si applica seriamente, si mette anche a studiare l’elettricità ed il magnetismo per elaborare i suoi esperimenti.
Purtroppo, non concluderà molto. Si interessa anche di ipnosi, frenologia e metafisica, vista come naturale complemento alla matematica. Decide infine di applicare la sua abilità nella scienza dei numeri per escogitare un modo per sbancare i casinò e fare un sacco di soldi, in società con degli amici: è un fallimento totale, e toccherà al Barone ripianare i debiti di gioco.
Morirà per un cancro all’utero nel 1852, a 36 anni come suo padre, abbandonata dal marito a cui aveva confessato poco prima qualcosa di inconfessabile (e tutt’ora ignoto), assistita solo dalla madre che la convince pure ad abbandonare un suo certo ateismo per abbracciare la religione e redimersi così dei suoi numerosi peccati, facendosi nominare sua sola esecutrice.
La dolce ragazzina che a tredici anni sognava di volare copiando le ali degli uccelli e già immaginava di attraversare l’Inghilterra su machine volanti a vapore, bussola alla mano, scrivendo addirittura un libro – “Flyology” – per raccogliere le sue scoperte, che diceva nelle lettere a De Morgan che i polinomi le sembravano come spiritelli e fate, che si presentavano sotto spoglie apparentemente diverse e cangianti ma sotto sotto erano sempre gli stessi, che Charles Babbage chiamava con affetto “Lady Fairy” e “The Enchantress of Numbers”, così se ne andava, per riposare a Nottingham, sepolta accanto al padre, che sicuramente non vedeva l’ora di poter abbracciare.
NOTE
(1) Nella sua descrizione della “Macchina di Turing” del 1936, Alan Turing immagina che sia non tanto una macchina, quanto un individuo, il “calcolatore” o “computer”, ad eseguire un certo programma
(2) I due teoremi di De Morgan sono usatissimi nella logica booleana e dicono, in maniera duale, che NOT (A OR B) = NOT(A) AND NOT(B) e NOT (A AND B) = NOT(A) OR NOT(B)