Mi avvio come previsto al padiglione di Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. A malincuore passo sull’Alto Adige, di cui pure conosco poco, ma decido che potendomi permettere solo una delle due regioni scelgo il Friuli. Il mio primo impatto è l’azienda di Valerio Marinig, dove assaggio lo Schioppettino di Prepotto: vitigno autoctono, vino rosso strutturato di gradazione alcolica 13,5%, affinato due anni in botte; ottimo colore, aroma speziato, pieno ed equilibrato all’assaggio. Ma cosa dire poi del loro Biel Cûr, 40% schioppettino, 40% refosco e 20% pignolo? Ancora più intenso e rotondo, sapido, un vino che mi è piaciuto molto e per cui azzarderei sicuramente il termine armonico. Ringrazio la gentilissima signora Michela al banco e torno a bighellonare tra gli stand; attira la mia attenzione il vino sbagliato di Alturis, dalle particolarissime etichette.
Viene fatto in due versioni, il Red Mul e il White Mul, con “mul” che sta per “mulo” in dialetto locale e “Red” e “White” invece che stanno per i rispettivi colori nel dialetto anglosassone. L’espositore mi spiega che l’idea è di riprendere la “pratica enologica” dei nostri vecchi in osteria, che trovando il vino rosso troppo forte e quello bianco troppo secco, li mischiavano nel bicchiere. Così nel Red Mul ad una base Merlot (85% se non ricordo male) viene aggiunto del Sauvignon; il vino è particolare, all’assaggio un melange di spezie e note fruttate e floreali fa presagire quasi un vino dolce; all’assaggio è un po’ strano e si percepiscono chiaramente i due cepage utilizzati che però sembrano un po’ fare a pugni tra di loro. Il White Mul invece ha una base Chardonnay 85% “macchiata” da un 15% di Cabernet Sauvignon; il bianco gli dona un tipico aroma di banana e fiori bianchi, il rosso un colore aranciato molto particolare, ma all’assaggio risulta un po’ anonimo, gli manca un po’ di spinta e, dispiace dirlo, sa un po’ dell’intruglio. Complimenti comunque per l’idea originale (e per la splendida etichetta), ma passiamo oltre.
Poco lontano, mi attira la dicitura “da agricoltura integrata” che campeggia sullo stand della casa Conte d’Attimis-Maniago di Butrio. Chiedo informazioni ma sinceramente, pur preso atto delle ottime intenzioni verso l’ambiente dei proprietari, continuo a non capire, in concreto, cosa significhi. Assaggio un buon Pinot Grigio, dal colore tenue e profumi delicati, piacevole ed equilibrato. Mentre sto quasi per andarmene, dà il cambio alla signora al bancone il proprietario, un distinto e gentile signore sulla settantina, passo dal bianco al rosso – e che rosso – e la musica cambia completamente. Vignaricco, taglio bordolese, annata 2010. Un bel colore rosso granato, speziato, tannico e morbido, dai tipici sentori di vaniglia donati dal passaggio in legno. Forse alla lunga la barricatura è un po’ troppo invadente, ma comunque un buon vino. Il top di gamma della casa è il Pignolo, dall’omonimo vitigno autoctono, annata 2008, ottenuto da uve naturalmente appassite in vigna, piccolissima produzione (1500-2000 bottiglie annue); si tratta di un vino da invecchiamento, veramente ottimo e straconsigliato.
Ho tenuto un posticino per la sezione internazionale, peraltro un po’ deludente come varietà e numero di presenze rispetto alle aspettative; anche così, comunque, non basterebbero i quattro giorni di fiera per esplorare per bene gli stand degli operatori presenti! Ho delle lacune clamorose e veramente poco margine, quindi… Scelgo il Sud Africa, perché comunque è un paese da conoscere e può capitare di trovare del vino sudafricano anche al supermercato, voglio avere un termine di paragone. Al Vinitaly c’è un importatore (Afriwines Srl) in collaborazione con la Camera di Commercio di Città del Capo. La ragazza al banco è molto tosta e mi guida all’assaggio delle cose più tipiche: Pinot Noir e Pinotage, ma non solo: c’è anche il Barbera in declinazione sudafricana. Ma andiamo con ordine: Whalehaven Pinot Noir 2015; la zona di produzione è a Nord di città del Capo, clima temperato e molto ventoso. E’ un ottimo vino, dall’aroma ampio e rotondo, pieno all’assaggio. Stesso dicasi del Whalehaven Conservation Coast, 2013, livello superiore che però trovo più fresco e tannico, sinceramente preferisco il primo. Si passa poi al Barbera Idiom 2012: 900 series. Che dire… E’ molto “carico”, ha l’acidità del barbera ma anche un tannino ruspante, ed i tipici profumi terziari della barricatura. “Ma in Sudafrica passate tutto in barrique?” – chiedo. “Ma noooo, non sempre” è la risposta. Però anche il quarto vino, 21 Gables 2104, il famoso Pinotage che so essere Pinot Noir + Cinsault, di un bel rosso rubino e dal profumo più vinoso e fragrante, tanto che gli daresti qualche anno di meno, è barricato pure lui. Molto interessante comunque all’assaggio, è sostenuto da una particolare sapidità.
Mi piacerebbe avere ancora tanto tempo per girovagare per vini del mondo (e non ho nemmeno considerato le birre, i whisky, ecc.), e di tempo in effetti ne avrei anche, ma gli assaggi cominciano ad essere troppi e non voglio fare un miscuglio senza senso. Ci sarà tempo e modo per rimediare, chissà, degustando con la dovuta calma magari anche fuori da una fiera campionaria. L’ultima chance la do ad uno stand “di gruppo” (ci sono diversi piccoli produttori che non sembrano relazionati tra loro) dove vedo campeggiare gigantografie di anfore e scritte in georgiano, ma le etichette non mi sembrano appartenere a questa nazione. Mi avvicino ad un tavolino ricavato su una botte e faccio la conoscenza con due simpatici signori tedeschi, di cui uno parla bene l’italiano e l’altro fa presenza. L’azienda è Veingut Rothe e produce vini bianchi in Germania con il metodo della vinificazione in anfora tipico della Georgia (infatti le loro anfore arrivano proprio da là). Per chi non la conoscesse, si tratta di far fermentare l’uva in grosse anfore di terracotta dette kvevri, vinificando in genere uve di diversi tipi insieme in rosso – cioè il mosto non viene filtrato per rimuovere bucce, raspi e vinaccioli. Le anfore sono interrate e usate non solo per la fermentazione, ma anche per l’affinamento del vino. I nostri amici tedeschi hanno applicato, come il più famoso Josko Gravner in Italia, la vinificazione in anfora ai loro vitigni teutonici: assaggio un Sylvaner del 2014 (9 mesi in anfora) ed un Gemishtersatz (uve miste Pinot Grigio, Muscalis ed Helios). Si tratta di vini non filtrati e quindi torbidi, velati, di un colore giallo paglierino cupo; hanno profumi davvero molto complessi e particolari, tutti da decodificare, e lo stesso dicasi dell’assaggio. Mi complimento con i ragazzi tedeschi e mi avvio verso l’uscita, in anticipo rispetto al previsto ma ho fatto la mia giornata e sono soddisfatto, un po’ stanco per starmene ancora in giro a racimolare pieghevoli e biglietti da visita.
Non penso che tornerò per varie ragioni, che comunque nulla hanno a che fare con la qualità dell’evento: sterminato, eccellente qualità, buona organizzazione e, nel mio caso, estremamente godibile per la relativa tranquillità (era l’ultimo giorno). Preferisco comunque eventi più piccoli e specifici che le adunanze oceaniche, anche se capisco che la possibilità di assaggiare certi vini, soprattutto stranieri, è ben difficile averla altrove.